Ogni volta che spendiamo 100 euro per prodotti agricoli, la parte che arriva nelle tasche di chi lavora la terra è spesso sorprendentemente esigua. Secondo i dati Istat sulla catena del valore, emerge un'amara realtà: se si parla di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro su 100 finiscono per remunerare l’agricoltore.
La situazione si fa particolarmente drammatica quando si tratta di prodotti trasformati, dove il ritorno economico per chi coltiva precipita a un misero 1,5 euro ogni 100 euro di spesa. Questo compenso irrisorio può trasformare il lavoro dei campi in una lotta quotidiana per la sopravvivenza, privando spesso gli agricoltori del giusto riconoscimento per la loro fatica e dedizione.
È proprio questo profondo squilibrio nella distribuzione del valore a monte della filiera ad aprire, purtroppo, le porte a fenomeni complessi e dolorosi come il caporalato. Una ferita aperta nel tessuto produttivo italiano, una mancanza di giustizia che tocca il cuore stesso della nostra agricoltura e la dignità di chi vi opera.
Se a chi coltiva la materia prima arrivano solo le briciole, non deve meravigliare che due quinti delle ore lavorate nel comparto agricolo siano irregolari. Questa è una realtà purtroppo diffusa a livello nazionale, che non conosce confini geografici, dal nord a sud, e attraversa diversi prodotti, dai pomodori ai meloni, dalle referenze di largo consumo alle eccellenze tipiche.
Mario Zani, presidente della società benefit Euro Company, che ha portato questa riflessione su LinkedIn, cita a supporto di questi dati ricerche come "Il caporalato nascosto nel ricco Nord" dell'associazione Terra (presentata da Flai Cgil) e analoghe conclusioni del centro studi Istat, riportate anche dal sito del ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
La strada per risolvere questa complessa problematica, secondo Zani, passa per l'equa remunerazione lungo tutta la filiera. È questa la chiave, l'opportunità concreta che l’industria ha per azzerare la schiavitù e garantire dignità e giustizia nelle sue produzioni. Le realtà industriali che affrontano concretamente il problema si distinguono per due caratteristiche principali: l'adozione di una filiera più corta, più trasparente e facile da monitorare, e l'implementazione di strategie che non scaricano sul prezzo finale le cosiddette "esternalità negative", come l’impatto ambientale o le violazioni dei diritti sociali.
Chi opera ai vertici della filiera ha, di fatto, una responsabilità precisa e ineludibile: quella di garantire una redistribuzione equa del valore e di tutelare i diritti di tutti i suoi interpreti, contribuendo a un cambiamento culturale ed economico. In risposta a un commento che sollevava l'importanza della domanda di mercato come leva di cambiamento, Zani ha ribadito: "La domanda di mercato è l'unica leva capace di convincere tutti. E la consapevolezza sta cambiando". C'è quindi un'opportunità di un cambiamento guidato anche da consumatori più attenti e informati.
Un commento al post di Zani ha ulteriormente evidenziato come "la giusta remunerazione passi dalla riduzione dei passaggi intermedi. Oggi non strutturare un contatto facile tra produttori e consumatori senza intermediari non solo è possibile ma obbligatorio. Se i produttori non fanno nulla a riguardo diventano parte del problema". Una riflessione che mette in luce la necessità di un'azione proattiva da parte di tutti gli anelli della catena.
Una cosa è certa: siamo di fronte a una sfida che tocca le fondamenta del nostro sistema agricolo e la vita di migliaia di persone. E serve un impegno collettivo e consapevole da parte di tutti gli attori della filiera, dai produttori all'industria fino al consumatore finale, per costruire un mercato non solo economicamente efficiente, ma soprattutto più giusto e sostenibile, dove siano riconosciuti il valore del lavoro e la dignità umana.