Sostenibilità

17 dicembre 2025

Cosa ci insegna lo spreco alimentare in Giappone

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In Giappone si sprecano ogni giorno tonnellate di cibo perfettamente commestibile, con un enorme impatto su clima, costi e coscienza di chi lavora nella distribuzione. 

Un nuovo libro della giornalista Rumi Ide - “The food we throw away: food loss, pandemic, and climate change” (Lett. Il cibo che buttiamo via: perdita alimentare, pandemia e cambiamento climatico, ndr) - racconta questo paradosso e mostra quanto il tema riguardi da vicino anche i consumatori europei.

Facciamo un passo indietro. Nel 2024 in Giappone si è parlato di “Reiwa rice crisis”: il riso sparisce dai supermercati, poi riappare con prezzi quasi raddoppiati, mentre nel frattempo ogni giorno tonnellate di riso ancora buono vengono buttate. Ide racconta un impianto che trasforma in mangime per suini gli scarti di Gdo e department store dell’area di Tokyo: circa 40 tonnellate di rifiuti alimentari al giorno, di cui 8 solo di riso, l’equivalente di 53.000 ciotole. 

Il paradosso nasce anche da norme molto rigide: il riso bianco lavorato è classificato come “alimento fresco”, e dopo poco più di un mese dalla data di molitura molte catene preferiscono scartarlo invece di continuare a venderlo, anche se ancora commestibile.

Ide propone una soluzione semplice: permettere ai retailer di vendere il riso con sconti fino a due mesi dalla molitura, ricordando che per molti consumatori il prezzo conta quanto la “massima freschezza”.

Ehōmaki, scuole chiuse e Olimpiadi: quando è il sistema a generare spreco

Come si legge su nippon.com, un esempio simbolico sono gli ehōmaki, i maxi rotoli di sushi di buon auspicio per Setsubun, diventati in pochi anni un prodotto must di convenience store e grandi magazzini. L’iper-offerta, spiega Ide, ha generato sovrapproduzione: nel 2023 circa 2,56 milioni di ehōmaki, per un valore stimato di 1,28 miliardi di yen, sono rimasti invenduti e sono finiti nella spazzatura. In tempi di scarsità di riso, nota l’autrice, è difficile continuare a chiamarli “portafortuna”.

La pandemia di Covid-19, poi, ha amplificato lo spreco in modi imprevisti: con la chiusura improvvisa delle scuole, latte e pane destinati alle mense sono rimasti senza sbocco e spesso sono stati eliminati. Lo stesso è accaduto quando i grandi magazzini hanno abbassato le saracinesche durante il primo stato di emergenza: i fornitori dei famosi food hall sotterranei si sono ritrovati con prodotti freschi da smaltire senza alternative immediate. 

Anche le Olimpiadi di Tokyo 2021 hanno prodotto spreco: su circa 1,2 milioni di bentō preparati per volontari e addetti, il 20% (circa 300.000 pasti) non è stato consumato.

Etichette, “da consumarsi preferibilmente entro” e buonsenso

Nel suo libro Rumi Ide prende di mira l’ossessione giapponese per le date di scadenza e “best-by”, soprattutto per latte e uova. 

Le aziende tendono a fissare margini molto prudenti per tutelarsi, ma molti consumatori buttano via il prodotto appena passa il giorno indicato, senza usare vista, olfatto e buon senso. L’autrice ricorda, ad esempio, che per le uova la data si riferisce al consumo a crudo: oltre quel limite, è sufficiente cuocerle rapidamente invece di gettarle.

Ide cita anche esperienze europee: in Danimarca alcune aziende stampano sui brick di latte inviti espliciti a “fidarsi dei cinque sensi” prima di decidere se buttare un alimento, mentre nel Regno Unito alcune grandi catene hanno iniziato a ridurre o togliere le date “best before” su ortofrutta e latticini proprio per non incentivare lo spreco domestico. In cinque anni, iniziative di questo tipo hanno contribuito a ridurre del 25% il food waste in Danimarca.


Spreco alimentare e clima: il costo nascosto

Il libro sottolinea come il food waste non sia solo una questione etica o economica: incenerire enormi quantità di cibo costa caro ed emette grandi volumi di gas serra. Il Giappone ha oltre 1.000 inceneritori, cioè più della metà degli impianti di questo tipo presenti in tutto il mondo, e brucia circa l’80% dei suoi rifiuti, record fra i Paesi Ocse. Bruciare cibo, che è composto per circa l’80% d’acqua, richiede molto combustibile supplementare e aumenta le emissioni.

Secondo la Fao, il Giappone è terzo al mondo per emissioni legate allo spreco alimentare, dopo Cina e Stati Uniti, mentre in termini complessivi di gas serra è quinto. Ide nota che questo impatto specifico del cibo buttato è spesso ignorato nel dibattito pubblico sul clima, nonostante sia un fronte in cui anche i singoli possono agire rapidamente.

La pressione sul retail (e sui lavoratori)

Ide sostiene che la riduzione dello spreco passi anche da un cambiamento nel modo in cui la distribuzione organizza assortimenti, ordini e promozioni. In un singolo convenience store, il valore del cibo gettato ogni anno è stimato in 4,68 milioni di yen, e molte catene di fatto incoraggiano gli ordini in eccesso rimborsando ai punti di vendita parte dei costi di smaltimento, fino a 30.000 yen per le campagne di fine anno.

Questo si traduce in un peso psicologico per chi lavora nei negozi: secondo un’indagine citata nel libro, il 40% degli addetti dei convenience store che lasciano il lavoro indica come causa lo stress di dover buttare via tanto cibo ancora buono. Lo choc è particolarmente forte per i lavoratori stranieri, che spesso faticano a comprendere una gestione così sprecona degli alimenti.

Tornare a dare valore al cibo

Un passaggio del libro ricorda che l’obbligo di indicare date di consumo in Giappone ha poco più di 50 anni: prima, erano i consumatori a valutare con i propri sensi se un alimento era ancora commestibile. Ide non invita a prendersi rischi sulla sicurezza, ma considera l’uso cieco delle date un tradimento della cultura giapponese, che da sempre predica rispetto per le risorse, per chi produce e per chi cucina.

La sua conclusione è semplice e universale: “Ognuno di noi può iniziare a fare qualcosa per il clima riducendo lo spreco di cibo”. Un messaggio che parla al Giappone, ma anche a chi, in Europa e in Italia, ogni giorno riempie e svuota il carrello della spesa.

E in Italia?

In Italia lo spreco alimentare resta lontano dagli obiettivi fissati dall’Agenda 2030: secondo gli ultimi dati Waste Watcher, nelle case si buttano in media 555,8 grammi di cibo a settimana per persona, in miglioramento rispetto al 2024 ma ancora sopra la media europea. Frutta e verdura guidano la classifica degli alimenti più sprecati, con oltre 60 grammi pro-capite a settimana tra ortofrutta fresca, insalate e tuberi, proprio quei prodotti che dovrebbero essere il cuore della dieta mediterranea.

La lezione che arriva dal Giappone, e dai casi raccontati da Rumi Ide, è che norme, etichette, pratiche della distribuzione e gesti quotidiani dei consumatori pesano tutti insieme sul risultato finale: se il sistema convince a buttare via troppo presto un alimento ancora buono, anche l’ortofrutta più sostenibile finisce per diventare un problema climatico ed economico

Ridurre lo spreco significa quindi ripensare insieme regole, comunicazione a scaffale, packaging e abitudini domestiche, riportando al centro un principio semplice ma decisivo per l’intera filiera: il cibo, prima di tutto, va rispettato.

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