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Ortofrutta e sostenibilità collettiva, così sia

ClaudioDallAgata_Bestack

Dall’Agata: “Nella ricerca di sostenibilità ogni fase dovrebbe concentrarsi sul valore che produce, e non sul disvalore degli altri”

Alcune riflessioni sul concetto di sostenibilità collettiva nella filiera ortofrutticola arrivano dall’editoriale di Claudio Dall’Agata, direttore generale di Bestack, nella newsletter settimanale del Consorzio. In estrema sintesi: la sostenibilità e i costi non si giudicano solo dall’imballaggio. A ciascuno i suoi oneri e i suoi onori nell’interesse della vera sostenibilità di filiera.

Quale sostenibilità, e come

“Senza scivolare nella dottrina, prima di misurarla occorre definire quale sostenibilità stiamo cercando”, scrive Dall’Agata. E, soprattutto, sostenibilità di che cosa. Dalla definizione segue la priorità con cui affrontarla. E il direttore di Bestack non ha dubbi: “A mio vedere il punto da cui partire è l’oggetto di scelta del consumatore, in cosa si realizza l’atto di acquisto: quindi decisamente il prodotto di consumo finale”.

“Sappiamo bene infatti quanto contino i comportamenti dei consumatori nel generare impatti – continua Dall’Agata – E questo vale anche per noi che ci occupiamo di imballaggi. Lo sosteniamo da tempo e ne abbiamo avuto conferma da autorevoli esponenti a un convegno ad Ecomondo 2022 (qui l’approfondimento). La sostenibilità vera, ricordiamolo, è di fatto sprecare il meno possibile, non rendere vano cioè l’impiego di risorse se poi il prodotto realizzato per tanti motivi non viene consumato. Se questo è il cuore del problema allora è corretto approcciare il problema con le cifre. Riferite all’impatto complessivo del prodotto e non solo all’imballaggio”.

L’impatto della filiera

Partiamo da qui, dalle cifre. EDGAR (Emissions Database for Global Atmospheric Research del Centro comune di ricerca Ue, JRC) – servizio scientifico interno della Commissione Europea – ha quantificato l’impatto della filiera agroalimentare per ciascuna fase produttiva. Fatto 100 l’impatto complessivo legato al rendere disponibile un prodotto alimentare sulla tavola dei consumatori, questa è la ripartizione: 31,4% utilizzo di suolo, 39,2% coltivazione, 3,9% trasformazione, 4,9% trasporti, 4,9% packaging, 3,9% retail, 2,9% consumo e 8,8% spreco alimentare.

“Certo – osserva Dall’Agata – è una media tra tutti i prodotti agroalimentari e probabilmente l’ortofrutta ha numeri differenti, ma indica comunque gli ordini di grandezza. Se la sostenibilità è una priorità per tutti, a ognuno il peso della propria fase. Sottolineo questo perché, se per noi la priorità è la sostenibilità dell’imballaggio, per ognuno dovrebbe essere la sostenibilità della propria parte, nell’interesse della filiera, appunto. Il ragionamento si pone ancora di più se all’imballaggio spesso si regala il ruolo della cartina tornasole della sostenibilità del prodotto nel suo complesso, come se la sostenibilità dell’Estathè passasse solo dal materiale cambiato della cannuccia e non da come è fatto quel prodotto o da che processi implica. Un altro esempio, la Coca Cola in lattina e il materiale del blister che tiene insieme la confezione da sei”. Esempi che confermano la transizione da plastica a carta e cartone che evidenziano l’errore che si compie.

E l’impatto agricolo no?

“Concordo con chi dice che la sostenibilità di un materiale dipende anche dal comportamento in termini di riciclo del materiale – prosegue Claudio Dall’Agata – Certo, ma la maleducazione dell’uomo comune è al tempo stesso un elemento da combattere e da tenere in considerazione fino alla sua sconfitta. Così come ci sono sistemi di riciclo più virtuosi di altri. Così come sistemi di riuso altrettanto efficienti. In tanti abbiamo iniziato a fare studi di Lca, ognuno per propria parte con risultati, per assunzioni ognuno diverse, che tra loro si contraddicono e non collimano e che premiano una parte o l’altra, se non altro perché ci si concentra sugli esempi, e ognuno ha il suo, in cui si risulta la soluzione preferibile”.

Così facendo per Dall’Agata non si fa un buon servizio all’opinione pubblica, alla filiera, alle istituzioni e alla Gdo, che di studi partigiani e contraddittori ne ha pieni i cassetti e che, per questo, li considera sempre meno.

“Anche per questo motivo le recenti prese di posizione sulla migliore sostenibilità di un materiale di imballaggio rispetto a un altro a mio avviso non centrano il problema – dice Dall’Agata – Tema lecito e importante, certo, ma che per il pack vale il 4,9% del totale del prodotto alimentare che il consumatore compra, come indicato dallo studio di JRC, sul totale di un prodotto alimentare. Lì l’industria del pack è pronta, lo sappiamo bene, e noi disponibili a parlarne ancora di più in maniera trasversale. Però c’è anche quel 70,6% di impatto legato alla produzione agricola che dovrebbe avere le stesse priorità e gli stessi approcci.

Per questo dopo aver iniziato ad applicare alla filiera l’approccio delle Pefcr (Product environmental footprint category rules, metodologia comune riconosciuta in Ue), Bestack ha stimolato il Cso Italy a intraprendere la stessa strada per diminuire quel 70,6% di impatto. “Lieti quindi che alcuni prodotti, pera e kiwi in testa, stiano, come noi, definendo i passi per potersi fregiare della certificazione Made Green in Italy sulla base di una metodologia condivisa da tutti, che quindi anche in questo caso parla di cifre”, commenta Dall’Agata.

Costi, serve trasparenza

C’è poi il tema dei costi e anche qui in trasparenza non brilliamo. Ho preso quindi con grande interesse la notizia che Auchan ha comunicato le voci di costo delle mele che vende, che recita “il prezzo di un 1 kg di mele venduto a 1,99 al kg è ripartito tra i diversi attori della catena di approvvigionamento: per il 34% come remunerazione per i produttori (prodotto, conservazione e lavorazioni), il 20% per i costi di confezionamento, il 16% per i costi di trasporto e di logistica, per il 25% per il processo di distribuzione e il 5% è l’equivalente dell’Iva italiana”.

Apprezzabile la trasparenza, sarebbe auspicabile comprendere il valore aggiunto che ciascuna fase produce nella definizione del prezzo finale. Sì perché ci sono casi in cui l’imballaggio non è sostituibile o la sua assenza non consentirebbe la vendita del prodotto. Ecco, anche per questo probabilmente nel rincorrere la sostenibilità complessiva sarebbe altrettanto utile che ogni fase si concentrasse sulla parte di valore che produce, e non solo sul presunto disvalore degli altri, ognuno con trasparenza per propria parte, capendo il valore di ciascuna parte e di quanto pesa nella sostenibilità collettiva. Diversamente la metafora dei tre capponi di Renzo, che si beccano tra loro, incoscienti di andare al macello, è decisamente calzante.

In collaborazione con Bestack

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