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Claudio Mazzini: “Premium? Solo se davvero migliore e diverso”

Il responsabile freschissimi di Coop Italia a ruota libera: le chiavi di successo e gli errori da evitare, il bio e le Ig. E le esclusive

Quali sono le chiavi del successo di un prodotto premium, quali i prerequisiti sui quali fondare ogni progetto? Lo abbiamo chiesto a Claudio Mazzini, responsabile commerciale freschissimi di Coop Italia, che ha partecipato al webinar di myfruit.it “Ortofrutta: come si diventa premium price“.

“Per creare premium il requisito più rilevante, e mia personale ossessione, è una qualità che sia riconoscibile, molto diversa da quello che c’era prima, e con una costanza qualitativa da prodotto industriale. Il premium deve essere un prodotto davvero migliore e davvero diverso. Memorabile e che mantenga questa differenza inalterata nel tempo. Accanto a queste due caratteristiche, ci sono altre necessità, più markettare, della giusta size, del giusto punto prezzo, della giusta confezione, della giusta comunicazione e di una modalità che renda il prodotto facile da ricordare. Elementi importanti, ma accessori al primo, che non sempre viene rispettato quando qualcuno pensa di proporre un premium. Parafrasando Boskov (“rigore è quando arbitro fischia”, ndr), premium è quando consumatore dice, non quando lo pensiamo noi”.

Gli errori da evitare

“Il marchio Fior Fiore, il primo a porre l’alto di gamma nei freschissimi e in ortofrutta, a casa nostra vale il 6% delle vendite – ha ricordato Mazzini – Con queste dimensioni, peraltro in crescita, il primo errore da evitare è non svenderlo, ma valorizzarlo bene. Grande attenzione deve fare chi produce alle scelte dei canali di vendita, perché se scegli canali tra loro molto diversi con condizioni di prezzo molto diverse, ti scavi la fossa da solo. La seconda cosa da fare, e noi lavoriamo molto in questa direzione, è lavorare con esclusive anche di lungo periodo, prendendo impegni crescenti, non solo volumi, facendo in modo che questa esclusività porti un valore aggiunto”.

“Memorabile, poi, significa che non si può sbagliare – ha sottolineato Mazzini – Soprattutto quando un frutto ha un nome, mi ricorderò di sicuro se è cattivo. E, per non rovinare la propria reputazione, bisogna uscire dal mercato quando non ci sono le condizioni. Il mondo dell’ortofrutta purtroppo è molto lontano dal capire che è preferibile non fare una campagna, o finirla prima, o aspettare le giuste condizioni piuttosto che dare una delusione, forse perché il concetto di marca, di memorabilità, non è ancora molto dentro”.

Ma su un altro aspetto si è soffermato Claudio Mazzini: “Altra cosa da evitare è questa abnorme innovazione varietale di prodotti buonini, non molto diversi da quelli di prima. Mi riferisco agli amici delle mele che sono stati fermi 35 anni poi in tre hanno voluto recuperare tutto il tempo perduto. Per tutte queste nuove varietà non ci saranno 20 anni come ha potuto godere ai tempi  Pink Lady che è stata la prima mela con caratteristiche molto diverse e per lungo tempo. Adesso, ogni sei mesi vengono annunciate due-tre nuove cultivar, siamo già a 23/24 nuove varietà. E’ evidente che gli investimenti e il tempo per rendere tutte queste varietà nuovi brand identitari rappresentino un’impresa molto difficile. Un’ultima cosa è cercare una comunicazione coerente con il tipo prodotto e il tipo target da colpire. E su questo il mondo ortofrutticolo ha ancora molto da fare e molto da imparare, copiando semplicemente dagli altri”.

Biologico e Ig, si può fare di più

Parlando, poi, di biologico e di Indicazioni geografiche (Igp e Dop) Mazzini ha precisato come entrambi siano rilevati dal punto di vista della classificazione marketing. “Se mi chiedete se il biologico meriti di essere premium, direi che il calo di vendite che stiamo registrando fa pensare che ci sia un problema nella testa del consumatore, che forse non gli riconosce più questa premiumness. Probabilmente si è rotto un equilibrio che prima c’era e che ha portato a crescite importanti negli ultimi 10 anni, ma che oggi qualche difficoltà sta segnando. E questa è una riflessione da fare. La stessa per le Dop e le Igp”.

Non solo ortofrutta. “Il mondo dei salumi e dei formaggi è riuscito a tenere Dop e Igp come sinonimi di altissima qualità, in ortofrutta qualche dubbio viene. Ci sono prodotti Igp che di qualità ne esprimono davvero molto poca. Bisogna tornare al Back to basic, cioè quando diamo un connotato di premium è assolutamente necessario garantire alcuni prerequisiti come gusto, sapore, bontà. Anche perché i prodotti che si classificano premium rispetto ai loro omologhi spuntano quotazioni non banali, ma interessanti. Facendo un’analisi delle prime quattro/cinque categorie di prodotti ortofrutticoli che valorizziamo con Fior Fiore, hanno un delta da 20 a 40/50 punti in più rispetto agli altri. Ragionando in euro/kg è evidente che c’è da soffrire un po’ meno tutti. Proprio in virtù di questo, quello che noto è un atteggiamento a mettere dentro un po’ tutto. Questa è la prima cosa da non fare. Ed è necessario anche un lungo percorso di autodiagnosi, in questo senso.

I casi di successo e cosa manca

Nella sua esperienza, Mazzini ha conosciuto più di un caso di prodotto premium di successo. “Di uno rivendico la paternità – ha  detto – e cioè l’uva senza semi (Pristine, ndr) che in quattro anni ha cambiato volto alla categoria. Qui per primi abbiamo avuto la fortuna, il coraggio o l’incoscienza di fare un accordo che partendo dal costitutore, proprietario della genetica, passasse al produttore, arrivando a noi con una esclusiva assoluta legata a un prodotto che nulla ha a che spartire con altre uve senza semi. E con una logica non di decumulo, come amano dire alcuni colleghi produttori, perché si piantano ettari sulla base del consumo e non sperando che qualcuno poi la consumi. Approcci diversi che, ripeto, a noi hanno cambiato il volto della intera categoria”.

Ma ci sono altri casi di successo. “Alcune fragole della Basilicata riescono sempre ad avere quotazioni diverse da altri prodotti – ha proseguito Mazzini –  Sono due anni che non ci mancano le fragole cattive, sono due anni che ci tagliano gli ordini di fragole buone e gustose. Qualche riflessione va fatta. Sulle pesche piatte a noi mancano i volumi, per crescere. Le altre pesche, invece, le abbiamo sempre in abbondanza, tendono a essere affinate a pdv perché, non essendo buone, nessuno le compra. Attenzione perché se alcuni prodotti hanno bisogno di una scala prezzi, e possono permettersi di non essere di qualità straordinaria, per fragole, ciliegie, uva o sono così o hanno poco futuro. Non vuol dire che le uve senza semi non sono buone, bisogna farle molto buone, rinunciare a qualche quintale per ettaro, rinunciare all’anticipo o al posticipo, bisoga tornare a mettere al centro il prodotto. E’ l’unico modo per funzionare”.

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