Cattive notizie per spinaci, fragole, peperoni e altre nove referenze ortofrutticole. Un nuovo studio condotto dall’Environmental Working Group (EWG) ha rilevato concentrazioni elevate di residui chimici nelle urine delle persone che consumano regolarmente questi prodotti.
I ricercatori parlano di una “sorprendente coerenza” tra i residui rilevati negli alimenti e quelli riscontrati nell’organismo umano, evidenziando come la dieta influenzi direttamente l’esposizione ai prodotti fitofarmaci.
Lo studio, il metodo e i risultati
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Hygiene and Environmental Health, è stato realizzato dai ricercatori dell’EWG, un’organizzazione statunitense che si occupa di salute pubblica e contaminanti ambientali. L’obiettivo era verificare se i livelli di pesticidi trovati dall’Usda — il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti (United States Department of Agriculture) — nella frutta e nella verdura riflettessero l’esposizione umana.
Per farlo, i ricercatori hanno incrociato i dati sui residui presenti nei prodotti agricoli con informazioni sulla tossicità delle varie sostanze chimiche e con le tracce di residui chimici individuate nelle urine di oltre 1.800 statunitensi partecipanti alla National health and nutrition examination survey (Nhanes). L’analisi ha riguardato tre grandi classi di pesticidi — organofosfati, piretroidi e neonicotinoidi — ma in totale sono state rilevate tracce di 178 sostanze diverse nei prodotti, di cui 42 correlate ai biomarcatori urinari.
La conclusione è chiara: chi consuma più alimenti con residui elevati registra una presenza maggiore di tracce nelle urine.
Inoltre, l’esposizione non è determinata da una sola sostanza, ma da una miscela complessa di composti che contribuiscono alla tossicità complessiva. Va detto che CropLife America, l’associazione che rappresenta i produttori di fitofarmaci, ha però contestato lo studio, sostenendo che l’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) valuta già l’esposizione cumulativa per quelli che condividono un meccanismo di tossicità comune e tiene conto delle popolazioni vulnerabili.
I prodotti più contaminati e quelli meno
Nella guida EWG 2025, che identifica i prodotti con i residui più elevati, gli spinaci risultano quelli con il maggior carico di chimica in peso rispetto a qualunque altra referenza testata. Subito dopo compaiono fragole, cavolo riccio, senape, cavolo cappuccio, uva, pesche, ciliegie, nettarine, pere, mele, more, mirtilli e patate.
Le miscele più problematiche sono state riscontrate nei fagiolini, negli spinaci, nei peperoni dolci e piccanti, nel cavolo riccio, nella verza e nelle foglie di senape.
All’estremo opposto, i prodotti meno contaminati sono stati l’ananas, il mais dolce fresco e surgelato, l’avocado, la papaya, le cipolle, i piselli dolci surgelati, gli asparagi, il cavolo, l’anguria, il cavolfiore, le banane, il mango, le carote, i funghi e il kiwi. Gli esperti tuttavia raccomandano di non ridurre il consumo complessivo di frutta e verdura, fondamentali per la salute. Piuttosto, suggeriscono di alternare referenze con residui più bassi o, quando possibile, scegliere versioni biologiche dei prodotti più contaminati.
Gli effetti sulla salute
Lo studio conferma che l’esposizione ai prodotti chimici è potenzialmente associata a nascite premature, difetti del tubo neurale e altre malformazioni congenite, aborti spontanei e aumenti dei danni genetici.
È stata inoltre collegata a riduzioni della fertilità, alle malattie cardiache e a diverse forme oncologiche. L’American Academy of Pediatrics sottolinea che i più piccoli — già nel grembo materno — sono particolarmente vulnerabili ai contaminanti ambientali, con possibili ripercussioni su attenzione, apprendimento e rischio oncologico.
Prodotti lavati: cosa significa davvero
Un elemento decisivo dello studio è che i residui analizzati provengono da prodotti già lavati. L’Usda, nei suoi test, imita infatti i comportamenti dei consumatori, risciacquando frutta e verdura sotto acqua corrente per 15 o 20 secondi e sbucciando quando necessario, come nel caso delle arance o delle banane.
Di conseguenza, la contaminazione rilevata corrisponde a quella che resta dopo un lavaggio standard; chi non lava adeguatamente i prodotti rischia quindi livelli ancora maggiori di esposizione.