Thomas Drahorad, titolare della NCX Drahorad ed editore di myfruit.it, analizza l’allarme scattato per l’alta moda e il food made in Italy dopo scandali giudiziari e sanitari, e si interroga sulla sicurezza e trasparenza della filiera ortofrutticola italiana. È davvero immune da rischi legati al lavoro irregolare, alle condizioni di sfruttamento e ai controlli effettivi? La reputazione del made in Italy si costruisce giorno dopo giorno: serve fiducia verificata, non mere rassicurazioni. Di seguito le sue riflessioni, e provocazioni.
La filiera dell’alta moda made in Italy è stata scossa da una serie di provvedimenti della procura di Milano che hanno coinvolto marchi simbolo del lusso italiano: Giorgio Armani, Christian Dior, Loro Piana, Valentino Bags, Tod’s, Alviero Martini. Il motivo? L’omissione colposa dei dovuti controlli sulla catena di fornitura, che ha portato all’amministrazione giudiziaria di alcune società.
Negli stessi giorni, un’inchiesta di Report (Rai 3) ha rivelato i risultati di analisi su quattro panini acquistati negli Autogrill: alte concentrazioni di batteri, possibili violazioni della catena del freddo e delle procedure igieniche.
Moda e food: due settori che, insieme all’agroalimentare, rappresentano il volto migliore del made in Italy nel mondo. Due filiere che, per il solo fatto di portare il marchio Italia, evocano qualità, fiducia, eccellenza. Eppure, anche lì, qualcosa si è incrinato.
E la filiera ortofrutticola?
A questo punto, una domanda sorge spontanea: possiamo dire con la stessa sicurezza che la filiera ortofrutticola italiana sia immune da rischi simili?
Qualcuno mi rassicura che l’ortofrutta italiana non impieghi lavoratori non in regola o immigrati in condizioni di sfruttamento, nei campi, nei magazzini o nei trasporti?
Qualcuno mi rassicura che le retribuzioni siano conformi ai contratti nazionali, e che non esistano aree grigie dove la pressione dei costi e dei tempi spinga verso il basso la dignità del lavoro?
E ancora: qualcuno mi rassicura che la manodopera in nero non sia una scorciatoia tollerata per restare competitivi, e che le subforniture non servano a spostare altrove le responsabilità sociali e legali? Qualcuno mi rassicura che la tracciabilità e la trasparenza della nostra filiera siano reali e non solo dichiarate? Che i controlli esistano, funzionino e non si fermino ai documenti di facciata?
E, soprattutto, qualcuno mi rassicura che nell’ortofrutta italiana il rispetto delle regole, la salubrità del prodotto e la legalità del lavoro vengano prima del profitto? Che le trattative sui prezzi non compromettano le garanzie minime di sicurezza, qualità e giustizia?
L’eccellenza non basta: serve fiducia verificata
L’ortofrutta italiana è — e deve continuare a essere — una colonna portante del made in Italy agroalimentare. Ma la reputazione non è un bene acquisito per sempre: si costruisce giorno dopo giorno, con trasparenza, controlli veri e rispetto sostanziale delle regole.
Le inchieste che hanno colpito la moda e il food service dovrebbero essere un monito per tutta la filiera agricola e ortofrutticola. Non basta produrre bene: bisogna potere dimostrare di produrre giusto.
E anche se qualcuno oggi volesse rassicurarmi, vorrei sapere chi controlla la fondatezza di quelle rassicurazioni.
Perché la fiducia, nel made in Italy, non si dichiara: si dimostra.