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“L’insostenibile confusione” e Report.

Report - Insostenibile Brevetto

Costruire un servizio televisivo puntando un obiettivo specifico, ma confondendo ancor più le acque

Si è soliti dire: “Mai confondere le mele con le pere” e nel caso della puntata di Report di lunedì 11 novembre dal titolo “L’insostenibile brevetto” sembra calzare a pennello. Non è la prima volta che il team di Milena Gabanelli affronta questioni tecniche e scientifiche in campo agricolo e alimentare e non è la prima volta che prima, durante e dopo venga sepolto da una valanga di critiche da chi in quei settori ci lavora quotidianamente come tecnico o divulgatore specializzato. E non è solo una questione di difesa del proprio orticello, come, giustamente qualcuno potrebbe sospettare. Ora, pur concedendo svariate attenuanti dovute alla difficoltà di esporre in modo sintetico, visti i tempi televisivi, e ad un pubblico generalista questioni complesse e tecniche, la sensazione che si potesse fare di più e meglio sorge dopo aver visto la puntata in questione.

La partenza, d’altronde, non era stata delle migliori: come riassume bene il sito giornalettismo.com la presentazione del servizio nei giorni precedenti era stata aspramente criticata per il notevole numero, più che di refusi, di errori veri e propri che nel caso di argomenti come quelli affrontati – brevetti nel mondo sementiero – sarebbe proprio il caso di evitare per non incorrere nel rischio di complicare argomenti già complessi di loro. Per averne dettaglio basta leggere gli articoli di Giordano Masini o Dario Bressanini.

Brevetti e OGM. Cosa c’entrano?
Ma è la costruzione della puntata che lascia perplessi. Si intendeva criticare la mancanza di investimenti da parte dello Stato nella ricerca scientifica in agricoltura, oramai lasciata quasi esclusivamente alle iniziative dei privati, che poi ovviamente registrano marchi e brevettano scoperte – dopo anni di investimenti economici per studiare una nuova varietà di mele o fragole è ovviamente normale – o, proprio a causa dell’assenza del settore pubblico, la logica concentrazione del mercato sementiero e dei relativi agrofarmaci di supporto nelle mani di pochi attori? E soprattutto, gli imputati erano coloro che brevettano la scoperta di nuove varietà o il fatto che queste ultime siano ottenute attraverso modificazione genetica? Perché il rischio che un normale consumatore non addetto ai lavori, dopo questa puntata, possa pensare che le mele club, Pink Lady® o Kanzi® non fa differenza, siano mele OGM, è alta. Anzi, altissima. Questo perché la parte più importante della puntata, montata subito dopo le immagini dei meleti trentini e altoatesini, è stata in realtà dedicata ai semi di colza e frumento Ogm di Monsanto e di altre multinazionali e al famoso caso che ha visto l’agricoltore Percy Schmeiser scontrarsi con il colosso canadese. Quale è, però, il collegamento tra un prodotto OGM, la colza in questo caso, ideato e brevettato da una multinazionale e le mele club, anch’esse brevettate e commercializzate con marchio coperto da copyright? Gerhard Dichgans, presidente di VOG, a inizio trasmissione ha illustrato cosa succede dopo che un agricoltore decide di coltivare una varietà di cosiddette mele club. Bisogna, come in questi casi è prassi, rispettare regole fissate in un contratto. Non era forse il caso, però, specificare che in questo frangente, comunque, non si tratta di mele OGM?

Perché il Kamut® sì e le mele Pink Lady® no?
Infine, il caso del frumento Kamut®. È stato presentato come esempio virtuoso di marchio registrato, che lascerebbe più liberi gli agricoltori rispetto ai casi sopra citati. E qui, sinceramente, comincia a essere difficile parare le critiche di faziosità e ideologismo che solitamente vengono rivolte alla trasmissione. Possibile che il team di Report non si sia minimamente accorto che il caso Kamut® sia forse uno degli esempi più paradigmatici circa le storture delle norme che tutelano la proprietà intellettuale di un marchio in campo alimentare? Se proprio si voleva puntare l’indice sul fatto che, in questo settore, sarebbe forse da ridiscutere tutta la normativa che tutela brevetti e copyright, il caso Kamut® era lì, pronto, servito su un piatto d’argento senza dover fare troppe ricerche, come esempio di cosa significhi brandizzare una vecchia varietà di frumento, vale a dire il Khorasan. In questo caso i proprietari del marchio non difendono né ricerca scientifica né lustri di investimenti, ma semplicemente il fatto di aver registrato e reso vincente un brand, Kamut®, unico modo per cui oggi abbia un senso commerciale coltivare l’antico frumento Khorasan. Dove risiederebbe, in questo caso, la virtuosità rispetto a chi ha brevettato una nuova varietà di mele e ideato un marchio commerciale, come il caso Pink Lady®?

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